Centro per i diritti del malato e per il diritto alla salute
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QUELLO CHE NON DEVE ACCADERE

 

Il signor XXX è persona completamente priva di vista e affetta dal morbo di Alzheimer (punteggio assegnato dall’Azienda sanitaria XXX, all’interno del “Progetto Cronos”, in data 1/12/2006: “Mini Mental State Examination: 22”; Hachinski Ischemic Score: “Demenza degenerativa”).

In data …..2006, nelle ore serali, il signor XXX veniva trasportato d’urgenza all’Ospedale S. Chiara di Trento, dove gli venivano diagnosticati degli ematomi cerebrali per i quali era necessario il trasporto urgente all’ospedale di Verona (Borgo Trento).

Il trasporto avveniva durante la notte, a mezzo ambulanza. A nessuno di noi familiari è stato concesso di salire sulla stessa ambulanza, nonostante l’esplicita richiesta formulata da parte nostra.

Il ricovero presso il reparto di Neurochirurgia Clinicizzata dell’ospedale Borgo Trento di Verona è avvenuto in nottata.

Una volta raggiunto l’ospedale di Verona, a nessuno dei familiari è stato permesso di assistere il malato al di fuori dell’orario di visita, nonostante l’esplicita e insistente richiesta da parte nostra, e nonostante facessimo presente che si trattava di persona priva di vista e affetta da Alzheimer, e quindi di un caso bisognoso di attenzioni particolari. Noi familiari ci siamo sentiti rispondere dal personale in servizio nel reparto che tutti i pazienti ricoverati erano casi particolari e che tutto quello che avremmo fatto noi per seguire il paziente sarebbe stato eseguito dal personale. Ci siamo sentiti inoltre rispondere che eventuali eccezioni alla regola dovevano essere concesse esclusivamente dalla caposala, ma ci è stato detto che nei giorni in questione questa era assente; non siamo poi mai riusciti a capire chi rispondesse all’incarico di caposala.

L’esperienza dei 5 giorni trascorsi in reparto (dalla notte tra il 7 e l’8 dicembre, fino al 12 dicembre) ci ha invece dimostrato la difficoltà dimostrata dal personale nella gestione di un paziente privo di vista: chi si avvicinava a lui per le cure non si presentava e operava in silenzio, magari facendo un’iniezione o sistemando il letto o per una visita medica; questo comportamento omissivo aumentava lo stato confusionale del paziente. E’ inoltre dimostrato che il personale, nel cambio di turno, non si passava l’informazione sulla sua cecità. Una rappresentante dello stesso personale ha infatti raccontato a noi familiari in uno dei giorni successivi al ricovero che, su richiesta fatta al paziente se volesse essere girato verso la finestra, si è sentito rispondere dal malato di non sapere da che parte fosse la finestra: ciò dimostra che chi ha rivolto la domanda non era consapevole del fatto che il paziente fosse cieco (cosa che è stata in quel caso esplicitamente affermata dalla persona stessa).

Al paziente è stato applicato un catetere e, per evitare che lo stesso se lo togliesse, gli sono state legate le mani alle sponde del letto, senza peraltro interpellare noi familiari e senza nessun tipo di preavviso; successivamente, attraverso le stesse modalità, gli è stato inoltre fatto indossare, per un certo lasso di tempo pari a circa un giorno, un busto particolare che lo costringeva a non alzare il tronco dal letto. Riteniamo che, se fosse stato concesso a uno di noi familiari di assistere il malato, sarebbe forse stato possibile evitare dei rimedi così drastici per una persona in quella situazione.

Il fatto che durante l’orario di visita i medici non fossero presenti non ha consentito a noi familiari di renderci conto del tipo di cure che nel dettaglio gli venivano prestate (ad esempio i farmaci assunti, le visite e gli esami eseguiti, i medici convenuti), dal momento che i medici, nei rari colloqui, davano informazioni del tutto generiche e dal momento che il paziente non era in grado di raccontare autonomamente quanto avveniva. Questi aspetti sarebbero stati invece essenziali per poter dare un consenso più consapevole alle  due operazioni a cui è stato sottoposto il paziente.

Il giorno 12 dicembre, nell’attesa del trasporto del paziente in sala operatoria, su esplicita richiesta è stato concesso dapprima solo alla moglie (dalle 10 e 30 alle 12) e successivamente anche a una figlia (dalle 13 alle 16 e 30) di assistere il malato. Dal momento tuttavia che si trattava di un permesso concesso in via eccezionale e dovuto all’iniziativa individuale di un’infermiera, le due persone sopra menzionate non si sono fidate ad abbandonare il letto del malato nemmeno per un istante, nel timore che l’incontro con altri elementi del personale le avrebbe costrette ad uscire dal reparto e che, una volta uscite, non avrebbero più avuto il permesso di rientrare. Ciò non ha consentito alle familiari del malato di allontanarsi dal reparto nemmeno per cercare qualcosa da mangiare fino al momento della discesa in sala operatoria, avvenuta appunto alle 16 e 30.

Quest’ultimo aspetto è descritto al fine di porre l’attenzione sul fatto che l’atteggiamento che ci imponeva di attenerci scrupolosamente agli orari di visita (12-13 e 16.30-19) era una prassi diffusa nel reparto, un’impostazione consolidata, e non una situazione dovuta solo alla scarsa sensibilità di singoli operatori sanitari.

 Il malato ha più volte evidenziato il proprio disorientamento e chiesto accoratamente la presenza di noi familiari al suo fianco. Ogni giorno ha accolto con grande disagio la notizia dei nostri allontanamenti al termine degli orari di visita e ha fatto riferimento al desiderio di morire raggiungendo i propri familiari in Paradiso.

Tutto ciò dopo una vita nella quale ha affrontato il proprio handicap con esemplare coraggio. La difficoltà emotiva e affettiva dovuta alla mancanza di noi familiari ha certamente prodotto nel paziente un ulteriore disorientamento e ha contribuito alla compromettere la sua voglia di vivere e di reagire alla malattia.

Noi familiari abbiamo deciso di fare appello al Centro per i diritti del malato non per desiderio di rivalsa e non per interesse diretto (visto che il paziente in questione è entrato in coma profondo a seguito dell’operazione del 12 dicembre e tuttora si trova in tale situazione), ma per fare in modo che non si debbano più verificare casi analoghi.

Attualmente il paziente è ricoverato presso la Stroke Unit dell’Ospedale S. Chiara di Trento.

Con l’occasione vorremmo anche portare all’attenzione la sensibilità e il sostegno umano fornito al paziente e a noi familiari dal personale medico e paramedico presso il reparto di Rianimazione Neurochirurgica dello stesso ospedale Borgo Trento di Verona.