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8 MARZO
AFGHANISTAN
29 settembre 2005, sull’aereo che
mi porta per la prima volta a Kabul ci penso con emozione: l’AfgHanistan, un paese che ho sempre avuto nell’anima, è un
sogno che si realizza. Dal finestrino dell’aereo compaiono le immense montagne
coperte di neve, più in basso il paesaggio sembra completamente brullo.
Kabul è una città caotica, l’aria
è irrespirabile tanto è inquinata e secca, provo lo stesso una commozione forte
nel toccarne il suolo, l’emozione di esserci, cercando di tenere a bada il
timore di non essere in grado di affrontare quello che mi aspetta.
All’ospedale di Emergency, incontro il Medical Coordinator del Programma: l’ospedale di Kabul è dedicato
alla chirurgia di guerra e alla traumatologia d’urgenza, io sono una pediatra,
non sarà questa la mia sede definitiva. I bambini che vedo sono tutti vittime
di incidenti stradali, di colpi di arma da fuoco, delle mine antiuomo, di
cadute.
Il breefing
d’accoglienza è subito interrotto: Marco, il Medical Coordinator, è un chirurgo ed è chiamato in sala operatoria
per una ferita da taglio, qualcuno è stato accoltellato. Mi chiede se voglio
andare con lui, mi cambio e lo seguo in sala operatoria.
Marco mi parla poi di quello che
sarà il mio lavoro all’ospedale di Anabah, nella
valle del Panshir, mi ricorda le rigide norme di
sicurezza, mi dà suggerimenti sui comportamenti da tenere.
Già il giorno successivo parto per
Anabah, per quello che diventerà il “mio” Panshir. La strada che percorre la valle è all’inizio
stretta e cupa, poi si apre, le montagne si allontanano un poco, stagliandosi
sempre più alte e spoglie: scorre a picco sul fiume, mi hanno avvisato di non
guardare giù, di fidarmi degli autisti.
La mattina dopo, terminato il giro in ospedale e l’incontro col personale,
nell’ufficio degli internazionali arriva trafelata un’infermiera, c’è un
piccolo di due giorni che sta male. Corro dove mi indicano, c’è un piccolissimo
bimbo sotto la lampada radiante, sta convulsivando:
chiedo l’ossigeno, mi rendo subito conto di una gravissima difficoltà respiratoria.
Intubo il piccolo e chiedo un farmaco anticonvulsioni, mi arrangio da sola per
ottenere la diluizione che mi serve. Qualcuno ventila il bambino mentre tento
di prendere
Terribili, i miei primi giorni in
Afghanistan, ma mi sono lasciata alle spalle le mie paure. Dentro mi è rimasto
l’amore per quella gente, per quella terra che non finirà mai di piangere e che
mi è entrata nell’anima, per quei bambini non
abituati alle carezze, al gesto d’amore di un estraneo; dapprima lontani e
diffidenti se allungavo una mano a scompigliarne i capelli e li chiamavo
allegramente per nome o con appellativi affettuosi. Alla fine erano loro a
chiamare me “ciao tesoro” e se entravo nella mia ward
mi correvano incontro, gelosi uno dell’altro, attenti
a chi salutassi per primo. Le madri mi accarezzavano le mani dopo che li avevo
visitati, alcune si toglievano un anellino offendendosi se cercavo di non
prenderlo.
Mi mancheranno questo paese e questa gente,
tutti coloro che hanno condiviso le mie giornate: fatte d’impegno, a volte di
dolore e frustrazione, ma anche di gioie grandi per questi bambini che ancora
considero miei. Ho ricevuto tanto, ho imparato ad apprezzare la vita fino in
fondo, ad accettare come parte di essa anche il dolore e
È davvero possibile l’amore tra due popoli,
anche quando sembra che vivano ai margini opposti del mondo: l’ho provato, lo
so.
Mariella
Monteleone
pediatra impegnata con Emergency